Cosa ci fa sentire in colpa?
Nella vita quotidiana ci imbattiamo di continuo in obblighi ai quali non osiamo sottrarci per mantenere il controllo delle nostre azioni. Così adempiamo al senso del dovere per non sentirci in colpa e crediamo di vivere meglio. Tuttavia, appena allentiamo il controllo e tralasciamo di fare il nostro dovere, ci assale il senso di colpa, dal quale sembra impossibile liberarsi. Come se non bastasse, ci rimproveriamo se ci concediamo il permesso di soddisfare un bisogno come quello di fare una passeggiata per prendere una pausa, piuttosto che continuare a lavorare. In tal modo, come autopunizione, ci neghiamo l’esperienza, impedendoci di godere del piacere che ci procura farlo.
Gli obblighi e i doveri cui siamo assuefatti fanno sì che viviamo qualunque esperienza come una costrizione, sulla base di convinzioni erronee originatesi nell’infanzia e divenute ormai dei modelli di riferimento che ci condizionano fortemente. Perciò, viviamo tutto come un dovere, come se dovessimo eseguire dei compiti. Basti pensare a quante volte durante la giornata vi dite “devo far questo” o “devo far quello”. Quante volte vi dite invece “voglio fare quello che mi va di fare”? Provate a farci caso e vi accorgerete che il dovere non è quasi mai intercambiabile con il volere.
L’origine di un tale senso del dovere è da ricercarsi nelle regole dettate dai propri genitori quando eravamo bambini: abbiamo appreso che è proibito usare un linguaggio scurrile e volgare, che non si devono dire bugie, che non sta bene manifestare interesse per la sessualità, ma soprattutto che per essere trattati con amore e benevolenza non bisogna trasgredire quanto dettato dalla morale impartita.
Così il bambino diventa incline ad associare la colpa a qualsiasi atto che i propri genitori giudicano inopportuno, e a concepirlo come una trasgressione da castigare. Pertanto, l’intento di conformarsi a una morale tanto rigida, pregiudica ogni forma di soddisfazione, che non ci consente di trarre godimento da nessun piacere. Comunque, anche quando seguiamo la nostra volontà, il piacere è sempre controbilanciato da un irrazionale senso di colpa.
Il bambino è portato a credere che quando non ottiene ciò che vuole, non lo ha meritato perché è stato cattivo e deve essere punito per aver trasgredito le regole.
Questa prospettiva diventa una vera e propria visione del mondo, per la quale si crede di non avere diritto a stare bene e a provare piacere, che non ci si può arrogare in virtù della colpa da espiare per i propri misfatti.
Perciò per liberarsi dal senso di colpa bisogna riappropriarsi del proprio valore e del diritto a meritare la felicità.
Prima il dovere e poi il piacere
Quante volte avrete sentito dirvi questa frase, soprattutto dai vostri genitori. Ebbene questo è uno di quei messaggi che sono diventati i principi guida del nostro modo di vivere e da cui derivano gran parte dei nostri sensi di colpa. Il problema è che la colpa e il dovere si sono radicati profondamente in noi a fronte di un sistema di valori, difficile da scardinare.
Come vengono assimilati i valori che assumiamo come doveri
Erving Polster (1922) offre un’interessante prospettiva: a seconda di come da bambini abbiamo imparato a ingerire il cibo e a scegliere cosa ci piace e cosa no, avremmo assimilato i valori che da adulti abbiamo assunto come norme inderogabili.
Inizialmente la discriminazione che il bambino opera è reattiva, nel senso che accetta e ingoia fiduciosamente il cibo facilmente assimilabile che gli viene offerto e non ha la necessità di rielaborarlo o selezionarlo per adattarlo ai suoi bisogni, fin tanto che non sa e non può masticare. Più tardi, da adulto, apprende la capacità di discriminazione nella misura in cui impara a individuare le proprie preferenze e a specificare le proprie richieste. Tuttavia, può accadere che la persona rinunci definitivamente a compiere una libera scelta nella vita, sacrificando ciò che vuole e resistendo alle pressioni relative a ciò che non vuole, perciò finisce con l’assimilare indiscriminatamente tutto quanto gli è stato propinato come giusto o sbagliato dai propri genitori, mantenendo saldi i valori assorbiti anche quando non sono congrui alle sue esigenze. In tal modo questi valori diventano dei doveri, che generano in noi un senso di colpa qualora non li rispettiamo.
Valori e giudizi diventano la guida per una vita stereotipata, sulla base della quale rischiamo di considerare soltanto ciò che è giusto e che dobbiamo fare, perdendo di vista quello che ci piace fare in virtù della nostra volontà e del libero arbitrio.
Il problema è che in genere le convinzioni riguardo ai nostri valori determinano la scelta di adottare un comportamento orientato verso l’edonismo piuttosto che verso il ‘doverismo’.
Per iniziare a liberarsi da questi condizionamenti, bisogna anzitutto allargare la gamma di valori disponibile e adeguarsi a nuovi valori maggiormente flessibili.
Cambiare il proprio sistema di valori per liberarsi dai sensi di colpa
Ognuno teme il giudizio altrui e questo costringe l’individuo a muoversi costantemente secondo le aspettative che crede abbiano gli altri nei suoi confronti, senza mai chiedersi cosa vuole e cosa desidera realmente.
Per questo Carl Rogers (1902-1987) propone che nel corso della terapia, la persona rivaluti il proprio sistema di valori, oltre che la natura e i principi secondo i quali li ha introiettati.
Da bambino, l’individuo sceglie di ripetere le esperienze piacevoli che hanno anche lo scopo di salvaguardare, migliorare e contribuire allo sviluppo del suo organismo, rifiutando quelle che hanno meno valore per la realizzazione di sé. Invece, da adulto perde la capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che vuole da ciò che non vuole per sé. Infatti il criterio informativo adottato dal bambino proviene esclusivamente dai suoi sensi, ovvero dall’interno, piuttosto che dall’esterno, perciò non è influenzato da ciò che i genitori pensano sia preferibile per lui. Questo accade finché non impara che spesso ciò che è ‘bene’ per lui è considerato ‘male’ dagli altri e per preservare e conservare il loro affetto, alla fine assume come propri i valori che qualcun altro ha stabilito per lui, senza tenere conto delle sue propensioni.
Nel tentativo di ottenere amore, approvazione e stima, la persona finisce non solo con il rinunciare ai propri criteri di valutazione e a modificarli sulla falsariga di quelli altrui, ma perde anche la fiducia nella propria sensibilità di discriminare certi aspetti dell’esperienza attuale come guida al suo comportamento, anche se i valori che assume sono in netto contrasto con i suoi bisogni. Anche se questi valori non concilano con le proprie preferenze, l’individuo vi si aggrappa ancora più rigidamente, per non dover mettere in discussione l’imprinting educativo ricevuto. Per esempio, una persona che non si permette di rilassarsi quando ha bisogno di riposare, probabilmente ha assunto come proprio un sistema di valori i cui dettami potrebbero suonare così: “chi si riposa è uno scanza fatiche, chi dorme fino a tardi è un fannullone, non si deve mai battere la fiacca. Si deve lavorare sodo per meritare quello che si vuole!”.
Ma, così facendo si allontana dal proprio modo di sentire, e la meta che si prefigge di raggiungere può diventare nettamente discrepante da quella originaria, verso cui l’avrebbe spinto la sua volizione.
I valori che non condividiamo tendono così a diventare delle imposizioni con le quali ci costringiamo a fare anche quello che non vogliamo e, se non li rispettiamo, ci sentiamo in colpa. Il senso di colpa deriva dall’antico retaggio per cui se da bambini trasgredivamo le regole, avevamo paura di essere puniti e dunque di perdere l’affetto dei genitori.
L’amore dei genitori infatti, è dato a condizione che il bambino faccia propri determinati valori.
È proprio da qui che origina il senso di colpa, per cui ancora oggi ci sentiamo in colpa se per esempio non esaudiamo la richiesta di una persona a noi cara, in quanto abbiamo timore di deluderla e temiamo di non meritare più il suo affetto.
Infatti, il criterio secondo cui l’individuo definisce i suoi valori è il parametro in base al quale viene apprezzato e accettato e dunque assume per sé quelli che gli assicurano stima e affetto.
Affinché ci si liberi dal senso di colpa occorre cambiare questo processo di valutazione e rendersi conto che quello che vogliamo e sentiamo non sempre coincide con le norme sociali o con il sistema di valori altrui. Allora bisogna accettare di fidarsi delle proprie intuizioni piuttosto che delle norme imposte dall’esterno, in modo da far coincidere il proprio comportamento con ciò che si sente di voler fare e non con ciò che si deve fare.
Le costruzioni mentali trasformano i nostri ideali in doveri
Ognuno possiede una mappa del mondo, che si traduce nella personale prospettiva dell’esistenza. Questa visione è un’idea che non corrisponde alla realtà oggettiva, bensì ad una rappresentazione di essa, ovvero alla versione che ciascuno ha del mondo e della vita.
Così spesso accade che ciò che si vive come ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri non è una limitazione realistica, ma ideale.
Il nostro modo di vedere le cose è detto sistema rappresentazionale. Dalle relazioni familiari si ereditano dei sistemi rappresentazionali che divengono modelli di selezione e di risposta che generano il comportamento e lo condizionano, plasmando l’esperienza futura in termini di doveri e limitazioni.
Molte delle nostre idee dominanti sono disfunzionali, in quanto ci mettono in una condizione di sfida per la quale dobbiamo essere sempre all’altezza di ogni situazione, dobbiamo rispondere alle aspettative altrui, dobbiamo essere produttivi, dobbiamo renderci rispettabili agli occhi degli altri e dobbiamo fare più del necessario per essere apprezzati. Queste convinzioni sono errate nella misura in cui tutto ciò che si pensa e si fa, è funzionale a quello che ‘devo fare’.
Le principali idee disfunzionali riguardano il bisogno di approvazione altrui e il dover essere adeguati, competenti e di successo in tutto quel che si fa.
Seguendo la classificazione di Cesare De Silvestri (1926-2009) vediamo insieme come suonano alcune idee e provate a riconoscervi in una di queste:
- Io ho assoluto bisogno di venire sempre amato, stimato e approvato da tutti quelli che dico io, altrimenti è gravissimo, orribile e catastrofico.
- Io devo assolutamente essere e/o dimostrarmi sempre perfettamente adeguato in tutto quello che faccio, altrimenti sono indegno di valore, che equivale a ‘valgo poco o niente’.
- tutte le persone che dico io devono assolutamente comportarsi sempre come dico io, altrimenti sono cattive.
- tutte le cose devono assolutamente andare come piacerebbe a me, altrimenti è inaccettabile.
- mi devo preoccupare in continuazione, perché le cose vadano nella maniera giusta.
Tutte queste convinzioni nascono dall’idea che “se non vengo amato e stimato dagli altri non valgo nulla”, da cui discende il dovere di essere capaci di ottenere un giudizio favorevole come prova o garanzia del proprio valore. Peraltro, formulare giudizi in termini di assolutamente vero o assolutamente falso, risulta ansiogeno.
Assolutizzare un desiderio comporta che la sua realizzazione diventi un dovere per noi e anche le conseguenze del mancato raggiungimento dell’obiettivo vengono assolutizzate, per cui se penso che ‘devo assolutamente superare un esame’, la bocciatura o anche la sola ipotesi assume proporzioni catastrofiche. Dal dovere, che si origina nel momento in cui le proprie preferenze vengono trasformate in pretese, poi discende automaticamente un autogiudizio, di perfezione in genere, che se non rispettato, porta a senso di svalutazione e colpa. Così se penso che ‘devo assolutamete essere approvato dagli altri’, la disistima anche di uno solo di essi verrà giudicata gravissima. Questo è anche uno dei motivi per cui non riusciamo a godere ed essere soddisfatti dei nostri traguardi, perché pensiamo sempre che avremmo potuto fare di più e meglio, convinzione che abbatte la nostra autostima, la quale invece è alimentata proprio dal pensiero opposto.
I problemi insorgono quando una convinzione diventa imperativa, ovvero assume la forma di un dovere e comporta un adeguamento imprescindibile che, in virtù della mancata realizzazione, alimenta il senso di colpa. In ogni caso, pensare che se quanto desideriamo non accade o non si realizza esattamente come volevamo, sia terribile e catastrofico, porta anche una diminuzione o perdita del valore personale, in termini di colpevolizzazione per aver sbagliato. L’autocondanna e la colpa per la propria inadeguatezza ci sono nemiche.
Per esempio, quando siamo vittime di un fallimento, il problema è che pensiamo che non sarebbe dovuto capitare proprio a noi e che è ingiusto. Al contrario, quando invece di assumere il ruolo di parte lesa, assumaimo quello di imputato, rivolgiamo al nostro interno la causa di quanto accaduto, con il risultato che ci sentiamo in colpa per aver agito in maniera sbagliata, che si traduce nella convinzione che ‘non sono buono a nulla’, assumendocene la piena responsabilità anche rispetto a quello che non ci compete.
La colpa allora diventa un’autocondanna, come fosse una punizione, giustificata dal fatto che ci si vergogna per quel che si è fatto.
La psicoterapia inverte il detto: prima il piacere e poi il dovere! Come liberarsi dai sensi di colpa
La frenesia e la pressione cui siamo sottoposti quotidianamente ci mettono a dura prova e richiedono molta energia, contribuendo a farci adoperare per rispettare i nostri doveri, anche quando potremmo dedicarci a quello che ci fa veramente piacere fare. Quando parliamo di energia, dobbiamo immaginare al costo che in termini di dispendio psico-fisico richiediamo al nostro organismo e pensare a quante volte chiediamo a noi stessi più di quanto siamo in grado di fare. Basti pensare all’ultima volta che avete continuato imperterriti nello svolgimento di un’azione che vi ha portato allo stremo delle forze fisiche e, nonostante ciò, avete continuato fino allo sfinimento. Sono certa che qualcuno starà pensando a quell’impegno di lavoro portato a termine entro il minor tempo possibile oggi, nonostante fosse rimandabile a domani, oppure a tutte le volte che prosegue nel fare una faccenda domestica quando vorrebbe piuttosto fermarsi e rilassarsi.
Questo accade perché non siamo consapevoli di quello che proviamo nel momento in cui per esempio continuiamo ad affannarci per portare a termine quello che stiamo facendo, quando una voce interiore dice: “Basta, non ne posso più, sono stanco … voglio andare a dormire”, e al contempo ce n’è un’altra che gli risponde: “Devi continuare, devi fare, non mollare proprio adesso. È giusto così, è così che si deve fare”. Di certo alla fine ha la meglio la seconda, ovvero quella che potremmo chiamare la voce del dovere, che siete soliti ascoltare mettendo a tacere la voce del piacere.
Rimandiamo costantemente il piacere, come se aspettassimo che qualcuno ci dia il permesso di goderci la vita
Allora la psicoterapia consente di riappropriarsi del libero arbitrio, che molti non sanno più di avere, imprigionati nella loro gabbia fatta di obblighi e doveri.
Per poterne uscire uno dei modi migliori è mettere in scena nella seduta di psicoterapia un vero e proprio dialogo tra queste parti in conflitto e iniziare a dargli voce, dando retta anche a quella parte rimasta inascolata a volte da anni. Questo dialogo mette la persona in contatto con ciò di cui ha bisogno, fino a trovare un accordo e pattuire le condizioni per realizzare quello che si vuole con piacere, senza sentirsi in colpa. In tal modo la convinzione che si cambia è quella di liberarsi dall’idea di non aver assolto i propri doveri quando abbiamo deciso di fare finalmente qualcosa di diverso.
Insomma quando si tratta del nostro piacere è il caso di fare oggi quello che potremmo rimandare a domani.
Quello che noi chiediamo a noi stessi è davvero troppo rispetto a quello che possiamo: è come chiedere ad un mulo che può sostenere un carico massimo di dieci chili, di portarne uno da venti, trenta, quaranta. Qualcuno chiede anche cinquanta. Quanto chiedete di sopportare voi al vostro mulo?
Assecondare i doveri prima dei piaceri diventa un problema, anche perché, come abbiamo visto, non mette a tacere il senso di colpa.
Per questo è necessario chiedere aiuto, perché ognuno ha bisogno di trovare la propria strategia per smettere di ‘fare tutto come di deve’ e recuperare il piacere di farlo come si vuole.
La psicoterapia è il principale strumento per la ricerca del piacere
e se doveste avere l’impressione che l’energia da mettere in campo sia inferiore alle vostre risorse, pensate a tutte le volte in cui chiedete al vostro mulo di portare carichi da cento quando sapete benissimo che ne può portare solo dieci, ma fate finta di niente, e interrogatevi su quanta fatica vi costi.