Truman Capote (Philip Saymour Hoffman) è un personaggio perfettamente aderente al tipo Due, soprattutto per l’orgoglio che lo caratterizza e per il modo in cui si rende unico agli occhi degli altri. Infatti in ogni occasione riesce a catturare l’attenzione del pubblico che lo circonda mentre parla, facendo sembrare quello che dice straordinario.
Ha un atteggiamento tanto altezzoso che l’aria di superiorità che assume trapela persino dal tono di voce, nonostante egli dica che “non è un vezzo”.
I suoi modi di fare sembrerebbero dimostrare una smisurata stima di sé, ma in realtà nascondono una profonda insicurezza riguardo alla considerazione altrui, a tal punto che per compensarla, è costretto a credere che nessuno possa vivere senza di lui per quanto sia eccezionale.
Così, per orgoglio, egli pensa che l’ammirazione degli altri non sia suscitata dalle strategie che adotta inconsciamente, bensì dal fatto che sia inevitabile restare impressionati dal suo modo di essere. La falsa modestia gli permette di conquistare consenso: quando gli vengono rivolti dei complimenti, non solo finge di non curarsene, ma sostiene anche di aver pagato l’inserviente del treno affinché glieli facesse al cospetto dei presenti.
“Certo non ho mai avuto talento per la vita normale”, dichiara Truman, lasciando intendere che disprezza l’ordinario, in virtù del suo bisogno di distinguersi. Non è un caso, infatti, che sia l’unico che “può ricordare il 94 per cento delle conversazioni” e che può affermarlo con certezza, in quanto lui stesso “ha fatto una prova” di questa capacità. Le persone lo ascoltano estasiate anche quando, parlando della morte della madre, descrive il suo vissuto solo in maniera marginale, come se l’accaduto non lo avesse coinvolto, riferendosi piuttosto ai sentimenti del patrigno: “Lui stava molto peggio di me”.
Peraltro, sottolineando il fatto di essersi assunto il compito di rendergli più sopportabile l’angoscia, aggiunge: “Gli faceva troppo male”, a riprova del fatto che proietta i suoi stati d’animo sull’altro, per non sentirsi investito in prima persona dalle conseguenze dell’evento, e per estraniarsi dal dolore. Questo atteggiamento rappresenta il modo con il quale il Due si prende cura dell’altro per distaccarsi dal proprio vissuto emotivo.
Vista la pretesa che gli venga riservata un’attenzione ‘speciale’, quando presenzia alla conferenza stampa per ottenere notizie riguardo al caso di cui vuole scrivere, è l’unico che, per orgoglio, non pone domande, perché farlo significherebbe venir considerato al pari degli altri giornalisti. Così si finge disinteressato, per nascondere il risentimento che nutre per aver subito l’affronto di vedersi rifiutata l’esclusiva dell’intervista all’ispettore. Però, confidando nel fatto che neanche lui, come gli altri, resista al suo fascino, malgrado dapprima si fosse mostrato reticente a concedergli delle informazioni riservate, dopo aver conquistato le simpatie della moglie, lo indurrà comunque a fargli ottenere ciò che vuole. La convinzione di Truman corrisponde chiaramente all’ideale del tipo Due, secondo cui è inconcepibile che ad un uomo così talentuoso si possa negare alcuna possibilità.
Capote si serve della sua empatia e della sua sensibilità per irretire due condannati a morte, facendo credere loro di essere disposto a farli scagionare, mentre il vero intento è quello di sfruttare la loro storia per scrivere il suo libro e affermarsi come autore di un nuovo genere letterario. Infatti anche quando svela la drammatica storia della sua infanzia, usa la sua sofferenza personale perché l’assassino faccia altrettanto.
Così Truman conquista in special modo uno dei due, Perry Smith (Clifton Collins Jr.), diventando servile con lui e rendendosi indispensabile al fine di instillare nell’uomo un bisogno di dipendenza tale da farlo sentire in debito nei suoi confronti. Infatti, quando Truman alla fine del colloquio sta per andare via, Perry stesso gli dice: “Mi manchi già”, a riprova del fatto che per lui ormai si è instaurato un legame così profondo da non potervi più rinunciare.
Man mano lo scrittore riesce a conquistarsi la sua devozione, procurandogli tutto quello che intuisce sia di suo gradimento, affinché riprenda a nutrirsi adeguatamente per mantenersi in vita e facendosi persino fotografare insieme a lui, in modo da farlo sentire importante. La falsa generosità con cui lo tratta gli permette di convincerlo a farsi dare i suoi scritti personali, dicendogli che “altrimenti il mondo lo conoscerà come un mostro”.
Tuttavia, dopo aver appreso dell’impossibilità di evitargli la condanna a morte, Truman smette di far visita a Perry, e al ritorno giustifica la sua assenza con il fatto che presto avrebbe dovuto abituarsi al loro distacco definitivo: “L’ho fatto per te quanto per me, non potevo sopportare di perderti così presto”. Così, il tono di voce melenso e lo sguardo accattivante con cui pronuncia tali parole bastano a farsi immediatamente perdonare.
Poi, quando Perry gli chiede di usare il libro per impressionare positivamente il pubblico, mente sul fatto di non averlo ancora scritto, per nascondergli la verità riguardo al fatto che invece ne sarebbe emersa l’immagine di un criminale. In realtà Truman resta deluso quando gli dicono che hanno condannato Perry, anche se il suo compagno sostiene che era “di buon umore” quando ha ricevuto la notizia, come se fosse troppo orgoglioso anche solo per mostrare i suoi veri sentimenti. Sebbene poi, quando gli viene chiesto se “abbia mai concesso la sua stima a Perry”, sia lo stesso Truman ad affermare: “è una miniera d’oro”.
Dunque, se in un primo momento sembra che prenda sinceramente a cuore il destino di Perry, non appena il libro inizia a prendere vita e ciò incrementa il suo successo, colui che era considerato un amico da salvare appare come il mero oggetto del suo lavoro, tanto da arrivare a dire che “non vede l’ora di assistere alla conclusione della vicenda per poter terminare il libro”.
In ogni caso Truman mostra un atteggiamento di grande ambivalenza, di cui egli stesso sembra essere vittima: “Dicono che lo sfrutto e che me ne sono innamorato, ma io non capisco come le due cose possano sussistere insieme”.
D’altra parte però, senza remore e vantandosi piuttosto della sua bravura, ammette: “Se penso a come verrebbe questo libro, resto senza respiro”.
Di lui dicono: “Truman innamorato di Truman […] “Non ne ha ancora scritto una parola ma sostiene che sarà il libro documento del decennio”, sostiene il suo editore.
Nonostante sia stato appena presentato e tutti sappiano chi è, quando sale sul podio per la lettura del libro, dice: “Il mio nome è Truman Capote”, dando seguito a una risata, come a voler sottolineare che nessuno lo possa dare per scontato. Quando poi ad una festa lo si vede attorniato da un pubblico inebriato dalle sue parole, e uno dei presenti gli fa notare quasi con disprezzo che “il ritratto di quegli uomini è tremendo”, lui gli risponde ridendo soddisfatto: “Grazie!”, coinvolgendo anche gli altri nella sua ilarità.
Durante la durata di tutto il film il profilo psicologico del protagonista è permeato da un’ambiguità emotiva: se da una parte Truman appare onestamente coinvolto nella situazione penosa in cui si trova Perry (affermando persino: “Sentirò la sua mancanza”), dall’altra si rivela indifferente alla vicenda, dicendo che “è il suo lavoro”.
Perciò, pur mostrando un lato sensibile, non si fa scrupoli a perseguire in maniera opportunistica i suoi scopi, tanto che Perry gli dice apertamente: “Tu fingi di essermi amico”. Eppure, anche in questa occasione fuga il suo dubbio e lo induce a fidarsi della sua integrità morale, rispondendogli: “Io non posso fingere di essere tuo amico, perché la verità è che non posso fare a meno di volerlo essere”.
Tuttavia, quando viene a sapere che entrambi i condannati sono colpevoli e non c’è nulla da fare per modificare la loro condizione, smette di impegnarsi nella ricerca dell’avvocato per poter chiudere il libro e liberarsi del “tormento” che sta vivendo: “Prego solo che si risolva a modo mio”.
Nonostante poi non ne voglia più sapere nulla, si capisce che tenerli in vita fino a quel momento gli ha fatto comodo per garantirsi il successo.
La frase “ho fatto ciò che potevo, dico sul serio”, sembra confermare che Truman creda veramente di non aver potuto evitare loro la condanna, ma forse non ne è convinto fino in fondo e, per redimersi dal senso di colpa, resta con Perry fino al momento dell’esecuzione, esaudendo la sua preghiera di assistervi. Inoltre, quando parlano per l’ultima volta, piange per aver compreso di aver anteposto la sua ossessione creativa e la sua mania di protagonismo al legame che Perry aveva stabilito con lui in modo del tutto sincero.
La sua sfrenata ambizione, infatti, viene a volte sopraffatta dall’emotività, sebbene non sia mai chiaro dove finisca l’interesse personale e dove inizi realmente il senso di solidarietà.
Truman è, quanto meno in parte, francamente convinto dell’onestà della propria intenzione di salvare il condannato. Prova ne sia il fatto che la maschera, che il più delle volte indossa per mostrarsi freddo e distaccato e che lo fa apparire privo di spontaneità, cade davanti alla sua sensibilità, che lo tradisce solo nelle scene finali del film.
“Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”, sarà l’epigrafe voluta da Truman sulla sua tomba, posta ad emblema della sua vita eccentrica e tormentata, che Bennet Miller racconta fedelmente in questa pellicola.
Sebbene, nella vita reale, il libro da cui è tratta la storia dei due condannati, “A sangue freddo”, abbia reso Truman Capote lo scrittore più celebre d’America, dopo la sua pubblicazione non è riuscito a scrivere nessun’altra opera dello stesso calibro, lasciando incompiuta l’ultima, dal titolo “Preghiere esaudite”. e non è un caso, se si considera il conflitto interiore generato dai comportamenti adottati per ottenere il successo, proprio come si vede nel film.
Dalla vera storia di Truman Capote (1924-1984) emerge il ritratto di un uomo tanto dilaniato nel profondo da aver dovuto sviluppare un’eccezionale abilità a mostrarsi come una star, esattamente come accade a chi incarna un carattere Due. Un carattere difficile ed irriverente, che nel caso di Truman lo condusse a vivere ai limiti dell’eccesso, facendosi comunque adorare da personaggi illustri quali Jackie Kennedy, Humphrey Bogart, Reagan, Andy Warhol, proprio per la sua originalità. Tuttavia, l’aspirazione al successo, tipica del suo carattere, gli ha anche permesso di sfidare le avversità, come quando, pur essendo solo impiegato come fattorino, si presentò ad un convegno nei panni di inviato del New Yorker e, provocando l’ira di Robert Frost, si fece licenziare, ma questo episodio gli valse l’opportunità di farsi conoscere ed entrare così nel mondo dell’editoria.
A causa di un’infanzia difficile, segnata da maltrattamenti, abbandoni e solitudine, Truman probabilmente si è rispecchiato nella storia di Perry e ha provato un’autentica sensazione di empatia nei suoi confronti, tanto da affermare, dopo averlo conosciuto, che “nulla sarebbe più stato uguale nella sua vita”.
In un’intervista rivelò di aver visto in quell’uomo “chi sarebbe stato, se non fosse uscito dalla propria triste infanzia dalla porta principale, anziché da quella sul retro”, come invece era accaduto a Perry. La sua figura controversa lo ha reso molto amato, al pari di un Oscar Wilde contemporaneo o di un poeta maledetto, oltre che apprezzato per essere ‘un genio’, come lui stesso si definiva. Dopo il suo ultimo romanzo, che gli causò l’ostracismo di tutti i suoi amici del jet-set, di cui aveva messo a nudo meschinità e segreti, si lasciò andare a un inesorabile declino: tossicodipendenza e alcolismo lo portarono alla morte per cirrosi epatica.