- Ottobre 14, 2024
- Valentina Arci
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ToggleCos’è la sindrome dell’abbandono?
La sindrome dell’abbandono è una sensazione di vuoto emotivo che insorge ogni volta che si teme di perdere l’amore e l’apprezzamento di qualcuno che amiamo, e può manifestarsi con l’angoscia e la disperazione simile a quella di un bambino che, quando viene portato all’asilo, teme che la mamma o il papà lo lascino per sempre. Questa sindrome corrisponde a uno stato di ansia che richiama la paura ancestrale della solitudine che non tutti, da adulti, riescono a gestire in modo sano.
Infatti, c’è una fase tipica dell’infanzia in cui l’individuo non si è ancora costituito un’identità autonoma ed è ancora completamente dipendente dai genitori, come è naturale che sia; ad un certo punto il bambino attraversa una fase evolutiva di crescita, grazie alla quale comprende che la mamma e il papà continueranno a volergli bene e ad occuparsi di lui anche quando lo affidano ad altre figure come gli insegnanti o altri familiari. Spesso questa fase viene vissuta con grandi difficoltà che possono costituire dei blocchi in virtù dei quali, da adulti, resta la necessità di essere costantemente rassicurati dalla persona amata rispetto al fatto che non ci lasci o si allontani per troppo tempo. Questa figura può essere rappresentata dal partner, da un amico/a o dalle persone alle quali si è legati da un rapporto affettivo in genere.
Se i genitori non hanno provveduto a dare sufficiente amore ai figli e a rassicurare loro che gli forniranno comunque il nutrimento emotivo di cui hanno bisogno anche quando devono affrontare la fase di distacco per diventare autonomi, l’individuo potrebbe sentirsi privo di punti di riferimento ed avere difficoltà a contare soltanto su sé stesso. Può darsi che i genitori abbiano fatto del loro meglio per indirizzare i figli verso l’autonomia, ma ciò che conta e che diventa determinante nel modo di rapportarsi agli altri nella vita è il modo in cui questi hanno recepito le loro intenzioni. Dunque, malgrado gli sforzi e l’impegno dedicato dai genitori nel fronteggiare la maturazione, ciascuno vive in qualche modo la sindrome dell’abbandono e adotta dei comportamenti in funzione di essa, per esempio mantenendo un atteggiamento evitante e di distanza emotiva nelle relazioni, per non sentire la paura. Ma potrebbe anche accadere che la persona si attacchi in maniera simbiotica all’altro e ne diventi dipendente.
La sindrome dell’abbandono, dunque, è strettamente connessa al modo in cui si è vissuto il rapporto con le figure di riferimento, in particolar modo con la madre, come dimostrano le ricerche in merito alle reazioni del bambino innanzi al distacco dalla mamma.
Per capire meglio di cosa si tratta si deve fare riferimento alle teorie dell’attaccamento, basate su situazioni sperimentali di gioco create ad hoc per osservare e comprendere cosa succede quando il bambino si ricongiunge con la mamma dopo esserne stato allontanato: le reazioni cambiano a seconda che la mamma lo accolga più o meno calorosamente. Infatti, secondo queste teorie la modalità di attaccamento, ovvero il modo in cui si è costruito il legame affettivo con i genitori, è determinante nello sviluppo della personalità e definisce i modelli di relazione futuri.
Tuttavia, questo disturbo può derivare anche da un trauma accaduto nell’infanzia o nella prima adolescenza come il lutto di un genitore, di un nonno o di qualcuno che si è preso cura di noi. In questo caso il timore è originato dalla perdita reale e non immaginata di una persona fisica; pertanto, il senso di abbandono può persistere nel tempo perché affonda le radici in un evento traumatico, che avvalora le ragioni per cui sentirsi abbandonati anche nelle situazioni del presente che, seppure diverse da quelle traumatiche, richiamano quelle vissute nel passato.
Come posso capire se ho la sindrome dell’abbandono?
Il senso di separazione e perdita, che deriva dai rapporti primari, può costituire una vera e propria patologia nella misura in cui si avvertono:
- una sensazione di vuoto e di angoscia ogni volta che si resta da soli per molto tempo, per esempio quando il/la partner si assenta per diversi giorni
- una costante condizione di precarietà e insicurezza come se si sentisse minata la propria stabilità se si discute animatamente con qualcuno e si crede che a seguito della lite il rapporto finirà
- un senso di paura e di sconforto tali da dover essere rassicurati che l’altro ci ami
- la necessità di avanzare continue richieste per avere la certezza che l’altro non si stanchi del rapporto, non cambi idea sul proprio conto e prometta di restare sempre al proprio fianco
- emozioni e comportamenti contrastanti: da una parte la solitudine spinge a mantenere una relazione simbiotica con l’altro e, per questo, si sente il bisogno di controllare il/la partner per accertarsi della sua presenza e del suo amore; dall’altra la paura porta a generare conflitti nella relazione con l’intenzione inconscia di rompere il legame affettivo, così da non incorrere nel rischio di essere abbandonati
Come liberarsi dalla sindrome dell’abbandono?
Il fulcro del lavoro terapeutico per chi soffre di questa sindrome consiste nel:
- risanare le ferite del rapporto genitoriale: con l’ausilio dell’EMDR il mio approccio consente di elaborare in terapia le sensazioni di trascuratezza vissute nell’infanzia e di ripristinare la capacità di riconoscere ciò che è sano e nutriente ricevere nelle relazioni da ciò che non lo è.
- apprendere nuove modalità relazionali: il terapeuta aiuta il paziente a sperimentare modalità affettive diverse con le quali instaurare il rapporto, cercando di integrare le parti di sé che lo fanno sentire in conflitto rispetto a ciò che vorrebbe.
Nel mio approccio chiedo al/la paziente di immaginare la parte impaurita di sé e di dialogare con lei per trovare un compromesso riguardo alle sue richieste. Questa generalmente si identifica con la parte bambina, la quale chiede al partner le attenzioni che non ha avuto dai genitori e invito il/la paziente a rassicurarla sviluppando la sua parte adulta, in modo che diventi in grado di prendersene cura da sé in primis.
- rafforzare la propria autostima: quanto più si alimenta la parte di sé che è in grado di fornire alla persona certezze riguardo al suo valore e alle sue risorse, tanto più l’autostima si incrementa e parallelamente diminuisce la necessità di ottenere riconoscimento dall’esterno. In questo modo la persona diventa in grado di “auto consolarsi” e auto rinforzarsi, così da avere sempre meno bisogno della presenza dell’altro per affrontare le sfide della vita quotidiana, finché potrà finalmente godere del nutrimento affettivo dell’altro senza alcun timore e avere una relazione sana e soddisfacente.